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«EUGENIO MONTALE – IL BENE COME INDIFFERENZA», di Marina Palmieri

[ Info Pubblicazioni: “Malvagia”, quadrimestrale della cultura sommersa; N. 42, Anno XIII, Ottobre 1996 – cfr. pp. 16-20, Rubrica “Osservatorio poetico” ]

 

 

 

 

 

Eugenio Montale – Il bene come indifferenza

- di Marina Palmieri - Info Pubblicazioni_Eugenio Montale: avrebbe voluto sentirsi scabro ed essenziale_di Marina Palmieri
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Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Eugenio Montale. Vogliamo anche noi ricordarlo, soffermandoci in particolare su uno dei temi fondamentali della sua poetica: il sentimento del “bene come indifferenza”.

Opposta al male che è necessità, sta l’indifferenza: l’indifferenza “divina”, l’indifferenza come prodigio, come intuizione che consente all’uomo di immergersi in una vita più alta: Spesso il male del vivere ho incontrato (..) Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua della sonnolenza, / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. Il bene, per l’appunto, esisterebbe soltanto nell’indifferenza: condizione che esprime non insensibilità ma tensione ascensionale del puro essere (il falco, simbolo di una potenza intatta) verso luoghi eterni, sospesi, liberati dal giogo del tempo e dello spazio. Il male, al contrario, è quell’esperienza di dolore e sofferenza procurata dalla natura, dalla realtà oggettiva (il rivo strozzato, la foglia riarsa e accartocciata). In questo così come in tutti gli altri componimenti di Ossi di seppia, non a caso, la declinazione montaliana del “male del vivere” mostrerà già la sua predilezione per un linguaggio aspro, petroso, proprio ad esprimere tutta la durezza e tutta l’asprezza della realtà.

Avremo così le crepe del suolo e la muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia (in “Meriggiare pallido e assorto…”), il teso ghiaccio che s’incrina (in “Felicità raggiunta…”), e l’orto assetato, l’afa stagna, la vita che scoppia dall’arsura, e così tutto un ricco repertorio di rimandi naturalistici che puntualizzano l’implacabilità maligna della vita e l’inganno consueto di una natura che presenta le parvenze come realtà. È il tema della negazione (un tema fondamentale in tutta la produzione poetica montaliana), dell’assenza, dell’insignificanza del mondo, racchiuso esemplarmente in quel senso disilluso e senza scampo di “triste meraviglia” e sempre più rigorosamente refrattario a ogni facile conforto. Può darsi / che sia vera soltanto la lontananza, / vero l’oblio, vera la foglia secca / più del fresco germoglio. Tanto e altro / può darsi o dirsi, confermano questi (“Ex voto”) come altri più tardivi versi di Satura (1962-1970) e di Diario del ’71 e del ’72: A questo punto smetti / dice l’ombra. (..) T’ho ingannato / ma ora ti dico a questo punto smetti. / Il tuo peggio e il tuo meglio non t’appartengono / e per quello che avrai puoi fare a meno / di un’ombra (“A questo punto”); Non si è mai saputo se la vita / sia ciò che si vive o ciò che si muore (“Opinioni”).

Giungendo poi al Quaderno di quattro anni (uscito nel ’77) noteremo come il tema della negazione raggiunga, senza mezzi termini o intermediazioni anche di carattere estetico, i vertici dell’insofferenza, dell’irrisione e finanche dell’ironia religiosa. La raccolta inizia infatti con la rievocazione dell’ultimo Nietsche, di quello che ha baciato il muso / di un cavallo da stanga e fu da allora l’ospite / di un luminoso buio (“L’educazione intellettuale”), si snoda per immagini caotiche e demoniache, ironizza su un Dio descritto di volta in volta come il calcolatore, il tritacarne, sfiorando una crudeltà di sapore sacrilego: La verità è nei rosicchiamenti / delle tarme e dei topi, / nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti – Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi / o forse è un’illusione perché non si vede / nulla di te / (..) non sapendo / che senso hanno quassù il prima e il poi / il presente il passato l’avvenire / e il fatto che io sia venuto al mondo / senza essere consultato, e chiude con un vago elogio della Catastrofe e della follia (“Morgana”).

Una breve digressione, ora, su questa svolta degli ultimi anni. Può essere interessante notare come proprio in tanta insistenza disinibitamente mostrata, a tratti quasi ostentata, nel rovesciamento delle certezze (apparentemente) più solide dell’umanità, specie di quelle rappresentate dalle divinità, sia leggibile un feroce ribaltamento di tendenza: quei tratti, cioè, di ribellione, furore, dissacrazione che, letteratura alla mano, hanno solitamente costituito punto di partenza di tanti autori (e di tante loro opere prime), sono di colpo (in quanto a toni e a immagini, e ferma restando l’ipotesi che il processo dovesse covare da molto tempo) appannaggio di un uomo anagraficamente e letterariamente anziano, di una personalità che aveva molto fatto parlare di sé per quella sua natura schiva, misurata nella sua sobrietà, elegante nella sua dignitosità. Quei tratti, in definitiva, ci mostrano il volto di un’esistenza certo ormai stanca, infastidita ma, soprattutto, non contaminata, non macchiata, dai luoghi comuni dei Grandi Vecchi.

Al di là dei risvolti, anche umorali, che il tema della negazione andrà con tanta asprezza sviluppando negli ultimi anni, c’è da chiedersi che ruolo abbia rivestito nell’uomo e nel poeta la dimensione degli affetti, dell’amore. Un ruolo fondamentale, certo, come testimonia la valenza magica e vitalistica attribuita più volte alla figura femminile (quella di “Mosca”, soprattutto, l’amata compagna e moglie cui è ispirata e dedicata la raccolta di Xenia). Una figura salvifica anche nelle assenze (il fantasma che salva) ma, mi sembrerebbe, non tanto per quel valore di risolutivo “riscatto” da una vita avvertita come nullità, parvenza, inganno, quanto ancora e sempre come “occasione”. E le occasioni, per l’appunto, sono in Montale quelle (rare) concessioni che l’esistere offre all’uomo e che prospettano la possibilità di attingere a significati più profondi della vita, fermo restando però quell’invincibile sentimento di assenza, di negazione. L’occasione è “l’attesa” di un segno, di un presagio, di un evento miracoloso. Attesa (un tema fondamentale già in Leopardi) ma mai riscatto, mai certezza di ribaltamento.

Così, anche nella raccolta propriamente intitolata Le Occasioni (1928-39) è con viva forza (specie nella sezione de “I Mottetti”) che torna la coscienza del male del vivere, per immagini ora estreme, sulfuree (Cerco il segno / smarrito, il pegno ch’ebbi in grazia / da te. / E l’inferno è certo), ove l’assenza si fa prepotenza di materia (La vita che sembrava / vasta è più breve del tuo fazzoletto), finanche di carne (Se il chiarore è una tregua, / la tua cara minaccia la consuma).

Anche quando il colloquio poetico si fa più disteso, più articolato, con le presenze celate dietro al “Tu”, le care apparizioni restano stritolate nell’abbraccio mortale del destino, del tempo che passa; figure (o sembianze?) umane cui solo una bizzarra capacità di resistenza ad oltranza offre la possibilità di una effimera, fugace, sopravvivenza nel mare dell’assenza: Non so come stremata tu resisti / in questo lago / d’indifferenza ch’è il tuo cuore. E vieni / tu pure prigioniera, sciolta / anima ch’è smarrita / voce di sangue..

Ma la resistenza, ancora, è una possibilità, una occasione, fra le tante, e non c’è nulla a cui essa possa affidarsi per tramandare anche solo il barlume di quel segno di volontà: neanche il ricordo, destinato ad essere dapprima deformato e poi sommerso dal tempo che passa, perché neanche il ricordo sarà più nostro, perché neanche il ricordo ci appartiene. E a nulla vale, alla fine, invocare quella speranza superstite, perché il destino della deformazione e del definitivo annullamento opera senza sosta: Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre. L’unica possibilità, anche per l’atto di resistenza (altro tema fondamentale nella poesia di Montale), resta quella del distacco, della presa di distanza, del silenzio. Ad assenza risponde l’assenza, alla negazione la volontà di negazione, all’oscurità, al male, al danno della vita si risponde col silenzio: il risultato positivo della resistenza è qui, in questa somma algebrica dei due termini negativi.

E cosa possiamo ancora ravvisare nella pessimistica visione montaliana dell’esistenza: forse anche una vena di autocompiacimento, di disprezzo, di pura insofferenza in quella tenace operazione di de/costruzione? Forse, ma rimane riduttiva ogni interpretazione che in tal senso volesse dirsi esaustiva. Il sentimento montaliano della (divina) Indifferenza e, più in particolare, del “Bene come Indifferenza” è, sul piano spirituale, un approdo molto alto: è una grande intuizione di quella via verso la liberazione possibile solo distaccandosi dal principio del bene, del piacere, e dallo stesso concetto di persistenza della vita, in quanto fonti di dolore. È un cammino verso l’estinzione della passione, verso l’estinzione del coinvolgimento emotivo negli aspetti e accadimenti transeunti, apparenti e ingannevoli (le “adorate larve” montaliane) dell’esistenza: un itinerario tutto occidentale verso quella salvezza che è “estinzione” del dolore (nirvana, nel buddismo).

E anche un cammino accidentato, certo, se in diversi punti s’impenna fra aculei di disprezzo, di irrisione, di cinismo: lo testimonia bene gran parte della produzione poetica degli ultimi anni che ci presenta un Montale spigoloso, infastidito, e che amareggia sapere irrimediabilmente imprigionato in tanta acredine (un passo falso, in fondo, una perdita di dominio, un ritorno cieco allo stato di passionalità), quando invece il lungo cammino intrapreso lo aveva portato a un passo dal completo dominio sull’Inganno della natura.

Non si ravvede perciò, nella trattazione del tema della negazione, del vivere come assenza e come nulla, un compiuto esito nel senso di un definitivo distacco e di una totale Indifferenza più volte trasmessi e svelati agli uomini, suggeriti come mezzi di liberazione dall’ingannevole apparenza della realtà, ma poi, sul finire degli anni, contraddetti e sottratti.

Purtuttavia, rimane innegabile il valore di una ricerca continuamente orientata in tal senso, mai dimentica della inevitabilità e invalicabilità del limite umano e, per di più, cosciente del valore conoscitivo del dubbio. Consapevolezza e condizioni di partenza che rendono perciò ancora più affidabile e preziosa l’esperienza di quella ricerca. Con le sue illuminazioni e i suoi tentennamenti, i suoi respiri e i suoi orizzonti, i suoi ripiegamenti e le sue feroci insofferenze, con materiali, insomma, tutti rigorosamente umani e mai affidati al facile conforto del mito o d’una qualche escatologia religiosa, mai viziati da pregiudizi di positività.

Sarebbe tuttavia interessante una rilettura della poetica montaliana sui temi del “male del vivere”, della “triste meraviglia”, della “divina indifferenza”, alla luce delle premesse esistenziali più intime del poeta. Che si lasciano intuire come sospese, continuamente in bilico sul punto di rottura, quasi programmatiche di quel sentimento di negatività e angoscia, di “quel bisogno di negarsi per sopravvivere” (Pasolini), e che potrebbero portarci ad alleggerire il peso che, in queste righe, abbiamo attribuito a certe cadute di tono e a certi balzi meditativi.

Del resto, per la tarda produzione montaliana (specie quella di Diario del ’72) si è anche parlato di “estraniazione dalla banalità per mezzo del banale stesso” (C. Scarpati), di esorcizzazione dell’ovvio. Ma forse anche di questi sostegni critici, come al contrario di quell’”abdicar di mente” più volte attribuitogli, all’Eugenio poco sarebbe importato, se, come intuendo le curiosità e gli interrogativi che su quelle premesse si sarebbero poi affollati, sigilla il suo Diario con queste parole di “Per finire”: Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentare / la dose. Tuttavia vedersi “aumentare la dose” è forse proprio il destino dei poeti, poiché la parola espressa va amplificando l’intenzione e la consapevolezza dell’origine, per attraversare genti e tempi diversi, per universalizzarsi. In questo senso, indagare sui termini della coerenza, sull’evoluzione etica-estetica, sulle consistenze e impennate umorali di un itinerario poetico non è gioco vizioso ma è compito, è “occasione”, d’accrescimento intellettuale e spirituale per l’umanità.

È proprio nel quadro di intrecci con altri destini, di rapporti di reciprocità che si vengono a ri/creare attraverso i tempi e le generazioni, di stretta compartecipazione della parola poetica (transustanziazione di idea e spirito) e le sorti evolutive della vasta umanità, che nello sviluppo di quel “male del vivere” assume somma rilevanza (facendosi sottofondo del sentimento della negazione, dell’inganno, ma anche d’una certa volontà ragionativa) quel tipico gesto montaliano che riassume in sé ogni altro accenno, ogni altra meditazione: l’offerta di sé, il sacrificio di sé, il far dono agli altri della propria pallida consistenza, della propria ombra (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale).

Quel farsi carico della coscienza della deperibilità della vita, del destino di una insormontabile solitudine, dell’amara consapevolezza del limite umano, fino a percepire l’incapacità della stessa morte d’assicurare all’uomo il benché minimo “riposo nelle zolle”, esprimono allora accettazione di quel ‘più’ di dolore e di condanna, affinché altri ne siano liberati. I “miracoli”, così, offerti all’umanità, le vie di fughe dalla certezza ferrea della necessità, sono quelli delle “occasioni”, della ricerca di quanto è eventualmente rilevante nella vita, di quei prodigi quotidiani che anche per un solo istante rischiarano il dissesto dell’esistenza, e, su tutto, quelle che passando per un progressivo distacco dagli inganni delle apparenze approdano alla “divina Indifferenza” e invitano l’uomo a rispondere alla sofferenza col distacco, col silenzio.

È un messaggio altissimo, che tuttavia Montale porge agli uomini con assoluta grande umiltà, consapevole che solo incidentalmente e imperfettamente gli è toccato in sorte di comprendere e di trasmettere agli altri, perché:

 

Lo spirito non è nei libri, l’avete saputo,

e nemmeno si trova nella vita e non certo

nell’altra vita. La sua natura resta

    in disparte.

Marina Palmieri

 

 

 

 

 

Amici, non credete agli anni-luce

al tempo e allo spazio curvo o piatto.

La verità è nelle nostre mani

ma è inafferrabile e sguiscia come un’anguilla.

Neppure i morti l’hanno mai compresa

per non ricadere tra i viventi, là

dove tutto è difficile, tutto è inutile.

 

(E. Montale, in “Altri versi”)

 

 

::

 

 

Non hai pensato mai di lasciar traccia

di te scrivendo prosa o versi. E fu

il tuo incanto – e dopo la mia nausea di me.

Fu pure il mio terrore: di esser poi

ricacciato da te nel gracidante

limo dei neòteroi.

 

 

(E. Montale, Satura / Xenia 1:6)

 

 

::

 

 

Avevamo studiato per l’aldilà

un fischio, un segno di riconoscimento.

Mi provo a modularlo nella speranza

che tutti siamo già morti senza saperlo.

 

(E. Montale, Satura / Xenia 1:4)

 

 

 

 

 

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fine testo del saggio: «EUGENIO MONTALE – IL BENE COME INDIFFERENZA», di Marina Palmieri

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