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«EUGENIO MONTALE. AVREBBE VOLUTO SENTIRSI SCABRO ED ESSENZIALE: SARÀ DIFFICILE INGANNARLO», di Marina Palmieri

[ Info Pubblicazioni: “l’informatorecultura” > per: “I Nobel italiani della letteratura nel dopoguerra” - Supplemento n°1 all’Informatore Vigevanese n°44 del 31 ottobre 1996 / dispensa 8 ]

 

 

 

 

Eugenio Montale. Avrebbe voluto sentirsi scabro ed essenziale:

sarà difficile ingannarlo.

- di Marina Palmieri - Info Pubblicazioni_Eugenio Montale: avrebbe voluto sentirsi scabro ed essenziale_di Marina Palmieri
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La sfida del percorso formativo. La multivalenza creativa.

Il 12 ottobre 1986 nasceva a Genova, ultimo di sei figli, Eugenio Montale. I genitori avevano da anni avviato un’azienda commerciale: pensando evidentemente di poter collocare il giovane nello “scagno” di famiglia, lo indirizzarono agli studi tecnici. Una prima sfida del destino per l’inclinazione poetica dell’introverso adolescente che prese a immergersi, con la convinzione tipica dell’autodidatta e la complicità della sorella Marianna, in studi d’ampio respiro letterario e in meditate letture filosofiche (soprattutto le teorie di Bergson su l’”intuizione” e lo “slancio vitale”). Molto formative, nella “psicologia geografica” montaliana, le lunghe stagioni trascorse a Monterosso. Da ragazzo Montale coltivò anche il canto ma alla morte del maestro (il baritono Ernesto Sivori) decise di cambiare rotta, convinto ormai della “fondamentale unità delle varie arti” (1). Trainante anche la passione giovanile per il disegno (che negli anni ’40 sfociò in una vera e propria mania pittorica). La formazione umanistica e artistica di Montale si andò perciò sviluppando in esperienze significativamente diversificate: una molteplicità che oggi – anche alla luce del rinnovato interesse per la concezione olistica, globale, della conoscenza – non possiamo trascurare se vogliamo addentrarci nel ricco humus in cui è germinata la sua unicità estetica.

Dalla “sonnolenza” del meriggio all’urto della catastrofe.

La prima poesia di Montale è “Meriggiare pallido e assorto”, raffigurazione esemplare dell’amato micropaesaggio ligure, scritta nel 1916, prima dell’esperienza militare (fu volontario in Trentino) che durerà fino al ’19. Le prime pubblicazioni risalgono al ’22 quando sul n. 2 della rivista torinese “Primo Tempo” appaiono “Accordi” e “Riviere”. L’incontro col gruppo di “Primo Tempo” e poi col gruppo gobettiano de “Il Baretti” accentuò l’orientamento neoilluministico di Montale, in netta contrapposizione alla retorica culturale del fascismo, del dannunzianesimo e degli idoli rondisti della “bella pagina”. Indicativi i lavori di “Stile e tradizione” (2) in cui Montale auspica la nascita di una “nuova arte del tormento critico” e quelli su Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz), fino allora pressoché sconosciuto in Italia, di cui nel ’23 era uscito “La coscienza di Zeno”, assoluto capolavoro narrativo del genere introspettivo-psicoanalitico. In “Omaggio a Italo Svevo” e “Presentazione di Italo Svevo” (3) l’ammirazione di Montale per lo scrittore triestino si sofferma sull’acume di una nuova letteratura che, “infrante le dighe del romanzo vieux style”, si dimostra capace di registrare e interpretare con sottigliezza la società del proprio tempo.

Ma il ’25 è anche l’anno della pubblicazione, per le edizioni Piero Gobetti, di Ossi di seppia, manifesto poetico del pensiero negativo montaliano, composto negli anni del primo dopoguerra: anni di pesanti afflizioni morali ed economiche, di paralisi parlamentari e di graduale avvio al totalitarismo. Anche la cultura entra in una spirale involutiva e Montale torna a ironizzare (vd. “i poeti laureati” de “I limoni”) su romantici e decadentisti, su una letteratura misticheggiante e artificiosa. Nel ’27 termina il periodo genovese di Montale: si trasferisce a Firenze e inizia a lavorare presso la casa editrice Bemporad. Nella nuova città entra in contatto col gruppo di Solaria e, tramite questo, con scrittori e intellettuali europei. Nel ’28 viene licenziato da Bemporad ma l’anno dopo il podestà di Firenze gli assegna, in quanto non iscritto al partito fascista, la carica di direttore del Gabinetto Viesseux. Per il poeta ciò comporta la possibilità di dedicarsi alla scrittura e agli studi senza più l’assillo del problema economico. Intanto, amplia le collaborazioni a la “Fiera Letteraria” e l’”Ambrosiano”, infittisce i rapporti coi personaggi più attivi della cultura del tempo, con Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti, Giansiro Ferrata, e soprattutto coi “solariani”, allora considerati “antitradizionalisti”, “antifascisti” nonché, per i rapporti con diversi scrittori ebraici (fra i quali Saba, Svevo, Kafka, Joyce), “sporchi giudei”. Invero, la funzione di Montale all’interno di “Solaria” rimase quella di tener viva un’opposizione morale, critica, al clima storico del momento, ma sempre col distacco tipico di una personalità insofferente al clamore e all’esibizionismo. Il sodalizio gli si rivelerà tuttavia fatale quando il regime, che esigeva ormai il più ferreo controllo delle forze culturali (fossero pure, come Solaria, minoritarie) e deciso a cooptare il Viesseux all’interno del “Centro informazioni sul Fascismo per stranieri” presso la Casa del Fascio di Firenze, vedendo opporsi da Montale il rifiuto di iscriversi al partito deliberò, nel ’38, di dispensarlo dal servizio.

Nel 1939 vengono pubblicate da Einaudi Le occasioni, composte a partire dal ’26. “Se gli ‘Ossi’ si fondavano sulla dimensione dello spazio, ‘Le occasioni’ si fondano sulla dimensione del tempo” (4); ricorrente, infatti, il richiamo a un tempo beffardo che annulla incessantemente l’esistenza. Sempre al ’39 risale la collaborazione alle riviste “Campo di Marte” (a fianco di Vasco Pratolini e Alfonso Gatto) e “Letteratura”.

Seconda guerra mondiale: nel ’40 Montale viene richiamato alle armi e nel ’41 congedato per “sindrome neuropsicastenica costituzionale”. La malferma salute lo attanaglierà per tutta la vita, ostacolandolo non poco nel lavoro di ricerca e scrittura ma anche divenendo elemento costitutivo della umoralità che darà corpo al sentimento del “male del vivere”, rappresentato come “morso secreto”, “risucchio”, “orror che fiotta”. Intanto, con lavori di traduzione, in gran parte di narrativa americana, si assicura la sopravvivenza. Agli anni della guerra risalgono le poesie di Finisterre (“Le più libere che io abbia mai scritte”; dedicata allusivamente ai “principi persecutori” e quindi improponibile in Italia, la raccolta viene portata da Gianfranco Contini a Lugano dove, nel ’43, è pubblicata da Pino Bernasconi.

Nel ’45 Montale fa parte del Comitato per la cultura e per l’arte del C.N.L. toscano e aderisce al Partito d’Azione. Restio a identificarsi totalmente in una concezione politica, preferisce affrontare, specie nei suoi interventi sulla “Nazione del Popolo” (organo del C.N.L.), questioni morali e culturali in funzione critica. Sempre nel ’45, con Bonsanti, Loria e Scaravelli, fonda il settimanale culturale “Il Mondo”.

La stanza del giornale, la poltrona di Senatore.

Nel ’46 iniziano le collaborazioni a “Il Corriere d’Informazione”, “La Lettura” e “Il Corriere della Sera” ed esce, sul n.1 de “La Rassegna d’Italia”, l’”Intervista immaginaria”, che ripercorre svolte e riflessioni del suo itinerario poetico e esistenziale, puntualizzato da un’autocritica spinta all’estremo: “Ho vissuto il mio tempo con il minimum di vigliaccheria ch’era consentito alle mie deboli forze, ma c’è chi ha fatto di più, molto di più, anche se non ha pubblicato libri”.

Nel ’48 si trasferisce a Milano: il “Corriere della Sera” lo ha assunto come redattore. Comincia così una intensa attività giornalistica che lo vedrà (fino al ’73) impegnato in grandi cronache, critiche letterarie e musicali, interviste a illustri personaggi, “coccodrilli” (articoli preparati in previsione delle morte di persone celebri). Molte delle ‘terze pagine’ confluirono più tardi nelle prose di “Farfalla di Dinard” (5). Ben presto, in veste di inviato speciale comincerà a viaggiare all’estero (un desiderio mai sopito ma troppo ambizioso, prima d’allora, per le sue scarse finanze), ampliando le conoscenze nell’ambito della cultura e dell’arte internazionali e conquistandosi nuovi uditori per le sue ormai richiestissime conferenze e letture poetiche. Sempre al ’48 risale la pubblicazione, nelle edizioni milanesi de “La Meridiana”, del Quaderno di traduzioni. “I nomi degli autori tradotti (fra i quali Shakespeare, Blake, Yeats, Eliot, Guillen – n.d.a.) rendono ragione degli interessi d’un poeta che considera alcuni incontri con altri poeti alla stregua di eventi vitali. Sono in gioco affinità elettive…” (6).

Nel ’49 avviene un incontro che lascerà molte impronte nella poesia di Montale: quello con Maria Luisa Spaziani. Un forte legame intellettuale e sentimentale: quasi mille le lettere spedite alla “Volpe”, come il poeta soprannomina la futura fondatrice del Centro Eugenio Montale e, a tutt’oggi, Presidente dell’omonimo Premio (7).

Il 21 maggio 1952, al Centre des rèlations internationales di Parigi, Montale partecipa a un dibattito su “Isolamento e comunicazione”. Un’occasione preziosa per chiarire il suo dissenso nei confronti della polemica fra i fautori di un’aristocratica estraneità della cultura alle vicende storiche del proprio tempo e, all’opposto, i fautori dell’”engagement”, dell’impegno socio-politico. Il poeta, nel suo intervento “La solitudine dell’artista” (8), sosterrà che: “il massimo dell’isolamento e il massimo dell’engagement possono coincidere nell’artista e dovrebbero coincidere sempre. Nessuno, nell’epoca nostra, fu più isolato di Kafka, e pochi raggiunsero come lui le strade della comunicazione. Se invece (..) intendiamo per comunicazione la materiale diffusione di un’opera e intendiamo per isolamento il fatto che un uomo (..) non esibisca un suo preciso credo politico e preferisca il riserbo al rumore mondano (..) allora diventa comunicativo qualsiasi best-seller, diventa engagé qualsiasi scrittore di cui si accettino le opinioni politiche (..). In questo senso solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano; gli altri – gli uomini della comunicazione di massa – ripetono, fanno eco, volgarizzano le parole dei poeti.

Nel ’56 (anno del Premio Marzotto) Neri Pozza pubblica la raccolta “La Bufera ed altro”: scritta fra il ’40 e il ’54, registra con nuova spietatezza la tragedia corale del conflitto (vd. “La Primavera Hitleriana) ma anche la delusione per i nuovi assetti sociali.

Ricchissimo di riconoscimenti e di iniziative editoriali il decennio che segue: Laurea in Lettere honoris causa, nel ’61, dall’Università di Milano; Premio internazionale Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei e pubblicazione di “Accordi e pastelli” per i tipi di Vanni Scheiwiller, nel ’62; uscita delle prime 150 copie di “Satura” nel ’63; discorso ufficiale “Dante ieri e oggi” al Congresso internazionale di studi danteschi del ’65 (VII centenario della nascita di Dante); pubblicazione della corrispondenza Montale-Svevo ad opera dell’editore De Donato di Bari e di “Auto da fé” per Il Saggiatore di Milano, nel ’66. Nello stesso anno escono 50 esemplari degli “Xenia”, delle offerte d’amore insopprimibile, incondizionato, all’inestinguibile ombra de “la Mosca”, la moglie morta (“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino..”). Nel ’67 Montale riceve a Cambridge l’Honorary Degree. Ma il ’67 è anche l’anno della nomina (13 giugno) di Senatore a vita dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat “per aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo letterario e artistico”. Nel ’69, per il 70° compleanno del poeta, Ricciardi pubblica la raccolta di prose di viaggio “Fuori di casa”.

Per aspera ad astra, con irriducibile ironia.

Gli anni ’70 rappresentano un periodo particolarmente ricco, in casa Mondadori, di pubblicazioni montaliane. ’71: Satura, opera accresciuta di “Xenia” e delle poesie fino al ’70; ’73: Diario del ’71 e del ’72 (9); ’76: “Sulla poesia”, ’77: Quaderno di quattro anni. A un anno dal conferimento della Laurea honoris causa stavolta dall’Università di Roma, il 10 dicembre del ’75 riceve dal re di Svezia a Stoccolma il Premio Nobel per la Letteratura. Due giorni dopo all’Accademia di Svezia terrà il discorso “È ancora possibile la poesia?” nel quale, non smentendosi nella sua natura ruvida e irrimediabilmente ironica, dirà: “Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo.” Al Nobel faranno seguito il conferimento, a Firenze, della cittadinanza onoraria (’77) e la nomina di membro onorario della American Academy and Institute of Arts and Letters (’78).

Come già per l’adolescenza, per l’itinerario formativo e il calvario professionale le stagioni dell’esistenza erano andate susseguendosi sul doppio filo di una sfida del destino, così anche la vecchiaia si consumerà sulle righe di una duplice partitura: quella di un sofferto declino fisico e quella di una ardita energia creativa. Fino a quando il 12 settembre 1981, nel silenzio d’una clinica milanese, s’affaccerà una “disturbata Divinità” per portare definitivamente con sé la doppia ombra del poeta.

Il male del vivere. La “divina” indifferenza.

Il “male del vivere” è uno dei temi portanti di tutta la poesia montaliana. È la scoperta del vuoto, della parvenza del tutto, dell’assenza. In questa visione, messa a fuoco negli “Ossi di seppia” col linguaggio aspro e petroso mutuato dal ‘micropaesaggio’ ligure, in questo scenario raggelato dell’esistenza come cammino assurdo, monotono, senza scampo, il pessimismo di Montale si mostrerà radicale: si sottrarrà sempre alle comode consolazioni, alle facili illusioni salvifiche, mentre andrà elaborando una concezione dell’indifferenza come unico bene possibile, unica risposta concepibile nei confronti della malignità della vita: “Spesso il male del vivere ho incontrato…./ Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza.” L’indifferenza esprime così la “triste meraviglia”, non l’insensibilità, verso l’illusoria parvenza delle cose (“Le adorate larve”), sospende l’anima dall’”inganno consueto” della natura, invita a rispondere alla sofferenza con il silenzio.

La negatività del pensiero montaliano ha anche sicure implicazioni di refrattarietà a ogni dogmatismo: “Non domandarci la formula che mondo possa aprirti, / sì qualche storta sillaba o secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, dove il “non” sta a ribadire il rigetto morale di ogni precostituita verità liberante e suggerisce piuttosto di riflettere con spirito disincantato sulle contraddizioni dell’umanità, secondo un’indicazione di “resistenza” che rimarrà fondamentale della sua poetica.

Con “le Occasioni”, il sentimento del male del vivere si svilupperà lungo la direttrice di un tempo che deforma e sommerge la memoria delle cose: “Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria”, e d’ogni tratto umano: “Non recidere, forbice, quel volto / solo nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre.” È il tormento dell’anima sull’incessante dissoluzione del tutto, elaborato per mezzo di quel tipico procedimento montaliano dell’”ironic implication” che adotta piccoli banali oggetti quotidiani e simboli di salvazione, che abbassa i toni, smorza la commozione (“Ti libero la fronte dai ghiaccioli..”), quasi a nascondere i sentimenti più teneri, a proteggere le “occasioni” più vibratili e preziose (come l’amore). Ma anche un procedimento che nel gioco strategico di quell’occultamento lascia baluginare il guizzo d’una inaspettata resistenza esistenziale: “Non so come stremata tu resisti / in questo lago / d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!” (“Dora Markus”).

La ripugnanza morale. “L’oscuro pensiero di Dio”.

In coincidenza con gli anni della seconda guerra e del dopoguerra,l’ironia del registro montaliano sfocia in tratti di sarcasmo feroce e la ripugnanza morale si affida a toni e immagini di sapore grottesco: “Dicono che chi abiura e sottoscrive / può salvarsi da questo sterminio d’oche (..) ho annusato nel vento il bruciaticcio / dei buccellati al forno (..) e i colpi si ripetono ed i passi / e ancora ignoro se sarò al festino / farcitore o farcito” (vd. “Il sogno del prigioniero”).

Ma è proprio nell’ambito della tragedia-bufera che si affaccia “l’oscuro pensiero di Dio”, con accenni a “il Volto insanguinato sul sudario / che mi divide da te” (vd. la delicatissima “Iride”) e a segni di protezione divina (e predestinazione) che vanno rivelandosi attraverso la figura della donna: “messaggera / che scendi, prediletta / del mio Dio (del tuo forse)..” (fortissimo, qui, il richiamo alle visioni dantesche). Ma complessivamente, in questa fase, il “pensiero di Dio” sta, soprattutto, a sorreggere l’impotente e confuso sentimento di pietà verso le ombre dei morti: “I miei morti che prego perché preghino per me..” e ad abbozzare forme di identificazione fra l’umano e il divino (“Immanenza e trascendenza non sono separabili”, affermerà il poeta). Se di teologia, comunque, si può parlare in Montale, di “teologia laica” si tratta: è l’uomo il soggetto centrale delle sue riflessioni, e tutto umano e affettivo rimane il senso della sua ipotesi di religiosità.

La ‘fede’ di Montale non ha, soprattutto, pretese escatologiche, non compie discorsi attorno al destino finale dell’uomo nel regno dell’aldilà: “Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare (..) e persistenza è solo l’estinzione (“Piccolo Testamento”). E ancora (a scanso di postume “normalizzazioni” religiose?): “L’oltrevita è nel tempo che se ne ciba / per durare più a lungo del suo inganno”, “Non si è mai saputo se la vita / sia ciò che si vive o ciò che si muore”, affermerà ormai ultrasettantenne. La spiritualità di Montale è racchiusa lì, in quell’atteggiamento di umiltà che lo ha visto sottolineare il suo limite di uomo anche quando a colloquio con le più alte tensioni morali e spirituali. Tutto questo nella consapevolezza che nessuno è depositario di una verità e che il vero dono divino, per l’uomo, è il dubbio.

 

Marina Palmieri

 

 

 

 

 

Note e riferimenti bibliografici

 

1)       Intervista immaginaria”, “La Rassegna d’Italia”, 1946, 1, pp. 84-85.   >

2)       Il Baretti”, gennaio 1925.   >

3)       Usciti rispettivamente su “L’Esame”-novembre/dicembre 1925 e “Il Quindicinale”-gennaio 1926.   >

4)       Piero Bigongiari, “Poesia italiana del Novecento”, Vallecchi, Firenze 1965, p. 217.   >

5)       Edito da Neri Pozza nel ’56, poi da Mondadori per l’edizione accresciuta del ’60.   >

6)       cfr. Giorgio Zampa, Introduzione a “Montale – tutte le poesie”, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1984, p. LII.   >

7)       Il Centro-Archivio Eugenio Montale, aperto continuamente ai nuovi studi e apporti critici riferiti al poeta, ha sede in Roma, Via Buonarroti 39.   >

8)       Così intitolato in “Auto da fé”, Il Saggiatore, Milano 1966.   >

9)       Il solo “Diario del ‘71” era uscito per la prima volta nelle Edizioni Vanni Scheiwiller, per il Natale dello stesso anno.   >

 

 

 

  Note e riferimenti bibliografici del saggio «EUGENIO MONTALE. AVREBBE VOLUTO SENTIRSI SCABRO ED ESSENZIALE: SARÀ DIFFICILE INGANNARLO», di Marina Palmieri

 

 

 

 

 

 

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